giovedì 18 agosto 2005

E’ proprio vero.

L’accomodamento, o assuefazione è una caratteristica degli esseri viventi che ha permesso loro di evolversi sino al genere umano o gli ha causato estinzioni catastrofiche.
Non l’ho detto io, non ricordo neanche chi lo scrisse, forse l’ho sognato.
Fatto sta che, se da un lato questa caratteristica permette a Dani di dormire "apparentemente" comodo su una hamaca in una spiaggia caraibica, dall’altro consente di "apparire" a me stesso, felice nella mia condizione di permanenza in questa città. Drammatica o entusiasmante che sia questa prospettiva è interessante notare come, tra le due condizioni diametralmente opposte, anche in senso geografico, ne esiste una terza che semplicemente supera o integra le due.
Luca, infatti, coerente con la sua natura di essere vivente e di ragazzo abruzzese, passa queste ore del mio amaro dilemma, tra nonne ideali, arrosticini, grigliate alluvionate, testi da scrivere e sbronze da cui riprendersi… come l’anno scorso, quello prima e quello ancora prima. In altre parole, è forse l’abitudine, ed il sentirsi in pace con questa, la condizione più opportuna per evitare le fluttuazioni e gli sbandamenti della strada che percorriamo e quindi garantire la longevità dei progetti e l'efficacia delle proprie azioni?

A questo proposito, credo sia attinente all’argomento un’altra questione per la quale mi contorcevo l’altra sera: quale cazzo è la differenza tra "passione" e "cuore"?
Sembra una problematica da 'tardo adolescenziale bloggettaro sfigato al caldo di agosto sul cemento di milano’, ed in effetti il mal di pancia era forse dovuto a questo, ma dopotutto è di questo che parliamo mentre strimpelliamo i nostri strumenti. Non riporto le definizioni che ho trovato su i vari dizionari consultati, data l’innafidabilità delle loro affermazioni, e spiego brevemente a che penso mentre quello dondola e l’altro si gongola.
Quella mattina sono stato in piscina. Non c’era il sole e neanche tanta gente per cui, ho appoggiato la borsa e mi sono tuffato. Vabbeh…eravamo in due con la cuffia e gli occhialini a fare avanti indietro.
Ho iniziato a nuotare felice di essere li e con un vigore inaspettato, andavo velocissimo e mi bulleggiavo con me stesso di superare me stesso e anche l’altro. L’altro andava, andava e respirava, metodico e continuo, avanti e indietro. Sentivo le braccia e le gambe scivolare tra le particelle d’acqua ed i pensieri aumentavano ad ogni vasca.
Dopo qualche salita e discesa ho capito che era sufficiente per la mia compostezza morale e che, se non fossi uscito, sarei affogato dalla fatica. Ma appena mi son sdraiato sull’asciugamano, mi è balenata improvvisamente la fatidica domanda: perché suonate?
Che palle! Avevo appena riacquisito l’equilibrio tra la mente ed il corpo, quando due parole assordanti sbilanciano il tutto. Non avevo voglia di rispondermi per l’ennesima volta, avevo il fiatone e la testa gonfia d’acqua e mi son messo sul bordo della piscina ad osservare l’altro che andava. Era un signore magrolino di mezza età, la cuffia di silicone nera e gli occhialini gialli affumicati. Il costume nero divideva in due quella persona bianca dondolante. Nel silenzio d’agosto si sentiva il suo respiro profondo, ritmico. Faceva poche bracciate mentre il corpo scivolava, girava la testa appena per far entrare un turbine d’aria tra il suo labbro ed il filo dell’acqua, ad ogni fine vasca cambiava senso quasi senza che me ne accorgessi.
Mi son buttato indietro e ho dormito un po’….
Era questa la differenza tra ‘passione’ e ‘cuore’: io nuotavo con passione, impulsivamente e con ogni cellula del corpo contemporaneamente, la testa altrove vagava piena e pesante; lui nuotava con il cuore, con ragionevole misura dei movimenti in funzione dello spostamento, con la mente immersa nell’acqua e non sprofondata in essa.
Appena ripresi i sensi, ho raccolto le mie cose e sono andato mentre quello ancora nuotava. Cazzo! Come son banali questi pensieri, eppure mi è sembrato di aver avuto una rivelazione.
Non so’, ma ho quasi l’impressione che l’abitudine sia sinonimo di esercizio e che l’esercizio i quanto l’allenamento sia la condizione per non farsi cogliere impreparati.
Sarà per questo che le canzoni che scrive sanno di lui, di me e di quell’altro.

giovedì 11 agosto 2005

Milano è più mia.
Sembra quasi che i giorni si siano rattrappiti o che basti meno tempo alle poche persone che son rimaste. Si sente il passeggiare delle persone qui sotto, il cigolio di un freno e l’orologio che gira, rotola. Io mi sveglio tardi, schiaccio play e guardo fuori cercando un po’ d’estate. Il calzolaio qui sotto è cileno e dentro al suo laboratorio c’è sempre qualcuno che chiacchera e lo aiuta, non smette mai di lavorare, sorride poco ma quando ti saluta ti senti in parte compreso nel suo mondo diverso dal tuo.La sera se torno verso le dieci, la luce sopra la saracinesca è ancora accesa e loro parlano animosamente, li è il loro paese. A fianco stanno allestendo un altro telephone center, il quarto nel raggio di cento metri, questo però è giallo e i muratori sono peruviani. Uno appoggiato alla macchina parcheggiata guarda mentre un altro piccolino, va avanti e indietro con atrezzi e robe di tutti i tipi, quello guarda enorme nella sua proprietà, serio e preoccupato nella sua proprietà. Subito dopo vendono aggeggi per il computer e accessori di varia tecnologia. Lui credo sia cileno e ha l’aria colta attraverso gli occhiali, di quelli che devi indossare se fai questo mestiere. Chissa perché è ancora aperto mentre appoggiato alla porta aspetta che la gente scorra. Attaccato c’è una vetrina di un metro e mezzo ed una porta aperta, non vorresti mai entrare se non fosse che il caffè ad agosto lo fanno solo li. Sembra tutto giallino e dietro al bancone si alternano due personaggi sbiaditi: lui magrolino con gli occhiali tartarugati, con qurant’anni portati nelle tasche dei pantaloni, per sbaglio, a caso dimenticati e lavati più volte. Non ho mai sentito la sua voce ma non sembra taciturno, forse non ha niente da dirmi. Lei arriva il pomeriggio, larga ed una faccia tanto brutta che potrebbe essere simpaticissima. Non credo che lo sia, abbiamo parlato del tempo, del caldo e delle persone che vanno. Manca qualcosa a questo bar per essere un bumbit. Se passo davanti verso le cinque giocano a carte gli anziani, mentre qualcuno in controluce sullo sfondo, verso il retro, gioca con quelle macchinette che misurano la tua fortuna. Alle undici e mezza, dal terrazzo sento lo scampanellio della sua bicicletta, la immagino che sorride e forse è felice. Lo spazio accanto è occupato da un meccanico. La sua officina mi ricorda , non so come, quelle stanze piene di rottami neri di grasso dove aggiustano gli autobus che attraversano l’India. E’ uno strano ordine il loro ed il suo, dove ogni pezzo ha senso solo inserito nella storia che lo lega a quel luogo; come ci è arrivato e in che modo uscirà. Sta li, a caso ma con un ordine ben preciso. In questi giorni lavora per starda, sul marciapiede e c’è sempre qualcuno, ben vestito e di una certa età, che a fianco osserva e commenta aspettando la sera. Osvaldo ha aggiustato più volte il nostro furgone, senza mai farlo completamente…manca sempre qualcosa a terminare l’opera. Sorride strano ma sorride, e a me sta simpatico.
Ah, dimenticavo la sartoria, prima del bar e anche prima dei computer. Dentro ci lavorano due signore trentenni ed una ragazza araba che indossa sempre il velo. Loro sono un po’ scontrose e quando le incrocio nel cortile di casa, mentre aspirano tese il fumo della sigarette, salutano con gli occhi senza faticare troppo. La ragazza con il velo ha un’eleganza particolare, non mi saluta ma sorride senza muovere le labbra. Loro hanno chiuso e probabilmente lavorano ancora nella casa dei nonni in un paesino bruttissimo, vicinissimo ad un mare bellissimo. Ecco, ancora un altro negozietto delle comunicazioni intercontinentali, sempre pieno di gente, ed infine il bar-tabacchi che fa angolo. Di lui ne parliamo un’altra volta dato che i visi e gli sguardi di questo posto non finirebbero mai di riempire pagine con storie di malfattori e di genuina fratellanza. Non ne so ancora nulla. Beh, ha chiuso una settimana fa e li c’è del vuoto.
Me ne sto a scrivere nella penombra, il giorno è gia passato, più semplicemente di quanto immaginassi. Si infilano come pezzi di pietra bucati e attraversati dalla linea continua dei miei pensieri. A volte tristi e volte di serena tranquillità. Se non fosse per questa collana ingombrante ed il fresco di questi giorni, non sembra neanche agosto, ma una città che non conosco.