E’ proprio vero.
L’accomodamento, o assuefazione è una caratteristica degli esseri viventi che ha permesso loro di evolversi sino al genere umano o gli ha causato estinzioni catastrofiche.
Non l’ho detto io, non ricordo neanche chi lo scrisse, forse l’ho sognato.
Fatto sta che, se da un lato questa caratteristica permette a Dani di dormire "apparentemente" comodo su una hamaca in una spiaggia caraibica, dall’altro consente di "apparire" a me stesso, felice nella mia condizione di permanenza in questa città. Drammatica o entusiasmante che sia questa prospettiva è interessante notare come, tra le due condizioni diametralmente opposte, anche in senso geografico, ne esiste una terza che semplicemente supera o integra le due.
Luca, infatti, coerente con la sua natura di essere vivente e di ragazzo abruzzese, passa queste ore del mio amaro dilemma, tra nonne ideali, arrosticini, grigliate alluvionate, testi da scrivere e sbronze da cui riprendersi… come l’anno scorso, quello prima e quello ancora prima. In altre parole, è forse l’abitudine, ed il sentirsi in pace con questa, la condizione più opportuna per evitare le fluttuazioni e gli sbandamenti della strada che percorriamo e quindi garantire la longevità dei progetti e l'efficacia delle proprie azioni?
A questo proposito, credo sia attinente all’argomento un’altra questione per la quale mi contorcevo l’altra sera: quale cazzo è la differenza tra "passione" e "cuore"?
Sembra una problematica da 'tardo adolescenziale bloggettaro sfigato al caldo di agosto sul cemento di milano’, ed in effetti il mal di pancia era forse dovuto a questo, ma dopotutto è di questo che parliamo mentre strimpelliamo i nostri strumenti. Non riporto le definizioni che ho trovato su i vari dizionari consultati, data l’innafidabilità delle loro affermazioni, e spiego brevemente a che penso mentre quello dondola e l’altro si gongola.
Quella mattina sono stato in piscina. Non c’era il sole e neanche tanta gente per cui, ho appoggiato la borsa e mi sono tuffato. Vabbeh…eravamo in due con la cuffia e gli occhialini a fare avanti indietro.
Ho iniziato a nuotare felice di essere li e con un vigore inaspettato, andavo velocissimo e mi bulleggiavo con me stesso di superare me stesso e anche l’altro. L’altro andava, andava e respirava, metodico e continuo, avanti e indietro. Sentivo le braccia e le gambe scivolare tra le particelle d’acqua ed i pensieri aumentavano ad ogni vasca.
Dopo qualche salita e discesa ho capito che era sufficiente per la mia compostezza morale e che, se non fossi uscito, sarei affogato dalla fatica. Ma appena mi son sdraiato sull’asciugamano, mi è balenata improvvisamente la fatidica domanda: perché suonate?
Che palle! Avevo appena riacquisito l’equilibrio tra la mente ed il corpo, quando due parole assordanti sbilanciano il tutto. Non avevo voglia di rispondermi per l’ennesima volta, avevo il fiatone e la testa gonfia d’acqua e mi son messo sul bordo della piscina ad osservare l’altro che andava. Era un signore magrolino di mezza età, la cuffia di silicone nera e gli occhialini gialli affumicati. Il costume nero divideva in due quella persona bianca dondolante. Nel silenzio d’agosto si sentiva il suo respiro profondo, ritmico. Faceva poche bracciate mentre il corpo scivolava, girava la testa appena per far entrare un turbine d’aria tra il suo labbro ed il filo dell’acqua, ad ogni fine vasca cambiava senso quasi senza che me ne accorgessi.
Mi son buttato indietro e ho dormito un po’….
Era questa la differenza tra ‘passione’ e ‘cuore’: io nuotavo con passione, impulsivamente e con ogni cellula del corpo contemporaneamente, la testa altrove vagava piena e pesante; lui nuotava con il cuore, con ragionevole misura dei movimenti in funzione dello spostamento, con la mente immersa nell’acqua e non sprofondata in essa.
Appena ripresi i sensi, ho raccolto le mie cose e sono andato mentre quello ancora nuotava. Cazzo! Come son banali questi pensieri, eppure mi è sembrato di aver avuto una rivelazione.
Non so’, ma ho quasi l’impressione che l’abitudine sia sinonimo di esercizio e che l’esercizio i quanto l’allenamento sia la condizione per non farsi cogliere impreparati.
Sarà per questo che le canzoni che scrive sanno di lui, di me e di quell’altro.
giovedì 18 agosto 2005
giovedì 11 agosto 2005
Milano è più mia.
Sembra quasi che i giorni si siano rattrappiti o che basti meno tempo alle poche persone che son rimaste. Si sente il passeggiare delle persone qui sotto, il cigolio di un freno e l’orologio che gira, rotola. Io mi sveglio tardi, schiaccio play e guardo fuori cercando un po’ d’estate. Il calzolaio qui sotto è cileno e dentro al suo laboratorio c’è sempre qualcuno che chiacchera e lo aiuta, non smette mai di lavorare, sorride poco ma quando ti saluta ti senti in parte compreso nel suo mondo diverso dal tuo.La sera se torno verso le dieci, la luce sopra la saracinesca è ancora accesa e loro parlano animosamente, li è il loro paese. A fianco stanno allestendo un altro telephone center, il quarto nel raggio di cento metri, questo però è giallo e i muratori sono peruviani. Uno appoggiato alla macchina parcheggiata guarda mentre un altro piccolino, va avanti e indietro con atrezzi e robe di tutti i tipi, quello guarda enorme nella sua proprietà, serio e preoccupato nella sua proprietà. Subito dopo vendono aggeggi per il computer e accessori di varia tecnologia. Lui credo sia cileno e ha l’aria colta attraverso gli occhiali, di quelli che devi indossare se fai questo mestiere. Chissa perché è ancora aperto mentre appoggiato alla porta aspetta che la gente scorra. Attaccato c’è una vetrina di un metro e mezzo ed una porta aperta, non vorresti mai entrare se non fosse che il caffè ad agosto lo fanno solo li. Sembra tutto giallino e dietro al bancone si alternano due personaggi sbiaditi: lui magrolino con gli occhiali tartarugati, con qurant’anni portati nelle tasche dei pantaloni, per sbaglio, a caso dimenticati e lavati più volte. Non ho mai sentito la sua voce ma non sembra taciturno, forse non ha niente da dirmi. Lei arriva il pomeriggio, larga ed una faccia tanto brutta che potrebbe essere simpaticissima. Non credo che lo sia, abbiamo parlato del tempo, del caldo e delle persone che vanno. Manca qualcosa a questo bar per essere un bumbit. Se passo davanti verso le cinque giocano a carte gli anziani, mentre qualcuno in controluce sullo sfondo, verso il retro, gioca con quelle macchinette che misurano la tua fortuna. Alle undici e mezza, dal terrazzo sento lo scampanellio della sua bicicletta, la immagino che sorride e forse è felice. Lo spazio accanto è occupato da un meccanico. La sua officina mi ricorda , non so come, quelle stanze piene di rottami neri di grasso dove aggiustano gli autobus che attraversano l’India. E’ uno strano ordine il loro ed il suo, dove ogni pezzo ha senso solo inserito nella storia che lo lega a quel luogo; come ci è arrivato e in che modo uscirà. Sta li, a caso ma con un ordine ben preciso. In questi giorni lavora per starda, sul marciapiede e c’è sempre qualcuno, ben vestito e di una certa età, che a fianco osserva e commenta aspettando la sera. Osvaldo ha aggiustato più volte il nostro furgone, senza mai farlo completamente…manca sempre qualcosa a terminare l’opera. Sorride strano ma sorride, e a me sta simpatico.
Ah, dimenticavo la sartoria, prima del bar e anche prima dei computer. Dentro ci lavorano due signore trentenni ed una ragazza araba che indossa sempre il velo. Loro sono un po’ scontrose e quando le incrocio nel cortile di casa, mentre aspirano tese il fumo della sigarette, salutano con gli occhi senza faticare troppo. La ragazza con il velo ha un’eleganza particolare, non mi saluta ma sorride senza muovere le labbra. Loro hanno chiuso e probabilmente lavorano ancora nella casa dei nonni in un paesino bruttissimo, vicinissimo ad un mare bellissimo. Ecco, ancora un altro negozietto delle comunicazioni intercontinentali, sempre pieno di gente, ed infine il bar-tabacchi che fa angolo. Di lui ne parliamo un’altra volta dato che i visi e gli sguardi di questo posto non finirebbero mai di riempire pagine con storie di malfattori e di genuina fratellanza. Non ne so ancora nulla. Beh, ha chiuso una settimana fa e li c’è del vuoto.
Me ne sto a scrivere nella penombra, il giorno è gia passato, più semplicemente di quanto immaginassi. Si infilano come pezzi di pietra bucati e attraversati dalla linea continua dei miei pensieri. A volte tristi e volte di serena tranquillità. Se non fosse per questa collana ingombrante ed il fresco di questi giorni, non sembra neanche agosto, ma una città che non conosco.
Sembra quasi che i giorni si siano rattrappiti o che basti meno tempo alle poche persone che son rimaste. Si sente il passeggiare delle persone qui sotto, il cigolio di un freno e l’orologio che gira, rotola. Io mi sveglio tardi, schiaccio play e guardo fuori cercando un po’ d’estate. Il calzolaio qui sotto è cileno e dentro al suo laboratorio c’è sempre qualcuno che chiacchera e lo aiuta, non smette mai di lavorare, sorride poco ma quando ti saluta ti senti in parte compreso nel suo mondo diverso dal tuo.La sera se torno verso le dieci, la luce sopra la saracinesca è ancora accesa e loro parlano animosamente, li è il loro paese. A fianco stanno allestendo un altro telephone center, il quarto nel raggio di cento metri, questo però è giallo e i muratori sono peruviani. Uno appoggiato alla macchina parcheggiata guarda mentre un altro piccolino, va avanti e indietro con atrezzi e robe di tutti i tipi, quello guarda enorme nella sua proprietà, serio e preoccupato nella sua proprietà. Subito dopo vendono aggeggi per il computer e accessori di varia tecnologia. Lui credo sia cileno e ha l’aria colta attraverso gli occhiali, di quelli che devi indossare se fai questo mestiere. Chissa perché è ancora aperto mentre appoggiato alla porta aspetta che la gente scorra. Attaccato c’è una vetrina di un metro e mezzo ed una porta aperta, non vorresti mai entrare se non fosse che il caffè ad agosto lo fanno solo li. Sembra tutto giallino e dietro al bancone si alternano due personaggi sbiaditi: lui magrolino con gli occhiali tartarugati, con qurant’anni portati nelle tasche dei pantaloni, per sbaglio, a caso dimenticati e lavati più volte. Non ho mai sentito la sua voce ma non sembra taciturno, forse non ha niente da dirmi. Lei arriva il pomeriggio, larga ed una faccia tanto brutta che potrebbe essere simpaticissima. Non credo che lo sia, abbiamo parlato del tempo, del caldo e delle persone che vanno. Manca qualcosa a questo bar per essere un bumbit. Se passo davanti verso le cinque giocano a carte gli anziani, mentre qualcuno in controluce sullo sfondo, verso il retro, gioca con quelle macchinette che misurano la tua fortuna. Alle undici e mezza, dal terrazzo sento lo scampanellio della sua bicicletta, la immagino che sorride e forse è felice. Lo spazio accanto è occupato da un meccanico. La sua officina mi ricorda , non so come, quelle stanze piene di rottami neri di grasso dove aggiustano gli autobus che attraversano l’India. E’ uno strano ordine il loro ed il suo, dove ogni pezzo ha senso solo inserito nella storia che lo lega a quel luogo; come ci è arrivato e in che modo uscirà. Sta li, a caso ma con un ordine ben preciso. In questi giorni lavora per starda, sul marciapiede e c’è sempre qualcuno, ben vestito e di una certa età, che a fianco osserva e commenta aspettando la sera. Osvaldo ha aggiustato più volte il nostro furgone, senza mai farlo completamente…manca sempre qualcosa a terminare l’opera. Sorride strano ma sorride, e a me sta simpatico.
Ah, dimenticavo la sartoria, prima del bar e anche prima dei computer. Dentro ci lavorano due signore trentenni ed una ragazza araba che indossa sempre il velo. Loro sono un po’ scontrose e quando le incrocio nel cortile di casa, mentre aspirano tese il fumo della sigarette, salutano con gli occhi senza faticare troppo. La ragazza con il velo ha un’eleganza particolare, non mi saluta ma sorride senza muovere le labbra. Loro hanno chiuso e probabilmente lavorano ancora nella casa dei nonni in un paesino bruttissimo, vicinissimo ad un mare bellissimo. Ecco, ancora un altro negozietto delle comunicazioni intercontinentali, sempre pieno di gente, ed infine il bar-tabacchi che fa angolo. Di lui ne parliamo un’altra volta dato che i visi e gli sguardi di questo posto non finirebbero mai di riempire pagine con storie di malfattori e di genuina fratellanza. Non ne so ancora nulla. Beh, ha chiuso una settimana fa e li c’è del vuoto.
Me ne sto a scrivere nella penombra, il giorno è gia passato, più semplicemente di quanto immaginassi. Si infilano come pezzi di pietra bucati e attraversati dalla linea continua dei miei pensieri. A volte tristi e volte di serena tranquillità. Se non fosse per questa collana ingombrante ed il fresco di questi giorni, non sembra neanche agosto, ma una città che non conosco.
sabato 9 luglio 2005
“Ho incontrato persone che non avrei mai pensato di rivedere.”
Iniziava cosi` il libro che mi e` capitato tra le mani mentre, passeggiando tra gli scaffali di una libreria, aspettavo che arrivasse quello giusto. Non e` un bel inizio, potrebbe essere un qualsiasi romanzo da leggere per sbaglio e da terminare di corsa per scendere alla fermata giusta. Parlando della mia storia avrei scritto diversamente: “ ci sono incontri che non puoi sapere, ci sono incontri di cui ti chiedi il come, ma mai il perche`”.
Poi son tornato su quella pagina con la necessita` di capire dove andavano quelle parole, e se pur con una goffa camminata verso il senso, erano in questo ordine preciso:”la persona di cui vi parlo non e` una, ma mille passanti sulle vie della mia memoria, sono io”.
Parlava forse delle mutevoli forme dello stare, immobile o mobile, ora qui, diversamente da ieri e chissa` quando tornero` cosi`. O meglio, quei dejavu di te stesso che rivivi talvolta sorseggiando atmosfere condivise con altri, come gli incontri che fai con gli sguardi, divisi esattamente a meta`.
Ti scopri come non avresti mai pensato di essere, o ti ricordi come eri e non sei piu, ti immagini di essere e non sei, per un attimo senti che sei quello che eri, per un attimo non sei piu` quello che sei, sei sempre una copia della tua imagine, vorresti ma non sei, sei ma vorresti…ti incontri per strada e fai finta di non riconoscerti, ti incontri per strada e fingi di essere il tuo migliore amico…
Tornando alla mia storia avrei continuato cosi:”se mi chiedessi di chi sto parlando ti risponderei pensando a tutte quelle persone che inaspettatamente sono entrate e sono uscite lasciando la porta aperta, o meglio ancora che son entrate perche` la porta era aperta e non son mai piu` uscite” .
Iniziava cosi` il libro che mi e` capitato tra le mani mentre, passeggiando tra gli scaffali di una libreria, aspettavo che arrivasse quello giusto. Non e` un bel inizio, potrebbe essere un qualsiasi romanzo da leggere per sbaglio e da terminare di corsa per scendere alla fermata giusta. Parlando della mia storia avrei scritto diversamente: “ ci sono incontri che non puoi sapere, ci sono incontri di cui ti chiedi il come, ma mai il perche`”.
Poi son tornato su quella pagina con la necessita` di capire dove andavano quelle parole, e se pur con una goffa camminata verso il senso, erano in questo ordine preciso:”la persona di cui vi parlo non e` una, ma mille passanti sulle vie della mia memoria, sono io”.
Parlava forse delle mutevoli forme dello stare, immobile o mobile, ora qui, diversamente da ieri e chissa` quando tornero` cosi`. O meglio, quei dejavu di te stesso che rivivi talvolta sorseggiando atmosfere condivise con altri, come gli incontri che fai con gli sguardi, divisi esattamente a meta`.
Ti scopri come non avresti mai pensato di essere, o ti ricordi come eri e non sei piu, ti immagini di essere e non sei, per un attimo senti che sei quello che eri, per un attimo non sei piu` quello che sei, sei sempre una copia della tua imagine, vorresti ma non sei, sei ma vorresti…ti incontri per strada e fai finta di non riconoscerti, ti incontri per strada e fingi di essere il tuo migliore amico…
Tornando alla mia storia avrei continuato cosi:”se mi chiedessi di chi sto parlando ti risponderei pensando a tutte quelle persone che inaspettatamente sono entrate e sono uscite lasciando la porta aperta, o meglio ancora che son entrate perche` la porta era aperta e non son mai piu` uscite” .
mercoledì 22 giugno 2005
Ma perché suonate?
Cazzo, è come quando si gioca a calcetto, le palle molto lente sono di certo un goal.
…camminavamo lungo una di quelle strade milanesi in cui di certo non incontri nessuno per almeno dieci minuti. Non hai nemmeno l’occasione di incrociare uno sguardo che supporti il tuo, pesante di pensieri. Ho rallentato il passo in quarti, il battito del cuore in ottavi mentre lo scorrere delle immagini scandiva i sedicesimi. Mi son fermato un attimo. Son ripartito con il piede destro e le parole che uscivano dalla bocca. Stop and go.
“La musica che facciamo è secondaria, è funzionale all’obiettivo che implicitamente ci siam dati”.
Escono così una fila di parole che rimangono sospese per un secondo, li appese ad un filo teso da me, per poi disperdersi in un filo di vento.
“è un mezzo per creare relazioni che intessono le storie; suoniamo per te che mi chiedi perché suoni”.
Non so bene che volesse dire l’ultima frase ma mi accorgo ora come possieda in sé la ricorsività delle nostre azioni, meglio ancora, del senso di queste.
Mi piace pensare al concerto come ad una comunicazione che sfiora tutti i sensi e che corre circolarmente tra te e me. Incidiamo i dischi perché qualcuno ci dica che lo ascolta la mattina mentre va a scuola o perché qualcun’ altro ne utilizzi le parole per spiegare se stesso.
Camminavamo, sempre più rapidi , ci si trainava a vicenda mentre pensavo.
A Milano capita spesso. Non siamo più abituati a passeggiare, a far respirare le parole, a guardare in alto se c’è il sole, altresì verso il basso per superare ostacoli. Ci si sposta da un punto all’altro tralasciando il percorso, non viene scelto ma è scelto.
È come dire che non importa come ci arrivi ma quando ci arrivi.
Il fiato e l’accelerazione cardiaca mi costringono a queste considerazioni, tralasciando la domanda iniziale, evitando di rispondere.
Mi son fermato guardandomi negli occhi.
Forse son stato esaustivo.
y
Cazzo, è come quando si gioca a calcetto, le palle molto lente sono di certo un goal.
…camminavamo lungo una di quelle strade milanesi in cui di certo non incontri nessuno per almeno dieci minuti. Non hai nemmeno l’occasione di incrociare uno sguardo che supporti il tuo, pesante di pensieri. Ho rallentato il passo in quarti, il battito del cuore in ottavi mentre lo scorrere delle immagini scandiva i sedicesimi. Mi son fermato un attimo. Son ripartito con il piede destro e le parole che uscivano dalla bocca. Stop and go.
“La musica che facciamo è secondaria, è funzionale all’obiettivo che implicitamente ci siam dati”.
Escono così una fila di parole che rimangono sospese per un secondo, li appese ad un filo teso da me, per poi disperdersi in un filo di vento.
“è un mezzo per creare relazioni che intessono le storie; suoniamo per te che mi chiedi perché suoni”.
Non so bene che volesse dire l’ultima frase ma mi accorgo ora come possieda in sé la ricorsività delle nostre azioni, meglio ancora, del senso di queste.
Mi piace pensare al concerto come ad una comunicazione che sfiora tutti i sensi e che corre circolarmente tra te e me. Incidiamo i dischi perché qualcuno ci dica che lo ascolta la mattina mentre va a scuola o perché qualcun’ altro ne utilizzi le parole per spiegare se stesso.
Camminavamo, sempre più rapidi , ci si trainava a vicenda mentre pensavo.
A Milano capita spesso. Non siamo più abituati a passeggiare, a far respirare le parole, a guardare in alto se c’è il sole, altresì verso il basso per superare ostacoli. Ci si sposta da un punto all’altro tralasciando il percorso, non viene scelto ma è scelto.
È come dire che non importa come ci arrivi ma quando ci arrivi.
Il fiato e l’accelerazione cardiaca mi costringono a queste considerazioni, tralasciando la domanda iniziale, evitando di rispondere.
Mi son fermato guardandomi negli occhi.
Forse son stato esaustivo.
y
martedì 14 giugno 2005
Non è vero che vivere a Milano è difficile. Lo è piuttosto trovare con chi farlo, con chi condividere quelli che diverranno ricordi labili o costruzioni indelebili.
Le prime tre pagine di un libro che ho appena cominciato, mi raccontano di come, con il passare del tempo, le situazioni che hai vissuto si dilatano nel tempo e perdono la chiarezza dei protagonisti, per rimanere dei paesaggi. Magari dei paesaggi ben definiti e di una limpidità fiamminga, ma paesaggi.
E’ stato un attimo, ma per quell’ attimo, queste parole mi hanno rincuorato. Ho creduto realmente che forse, l’importanza di ciò che vivi, non sta nelle singole, specifiche situazioni che accadono, ma nel paesaggio che ti circonda, nel cane che abbaia quando baci una ragazza o negli spazzini che senza che tu te ne accorga passano là dietro, a fianco a te e al tuo più grande amico, nel cuore della notte. Non ci badi e passano.
Ecco, questa città ti scivola tra le mani e temo rimanga un brutto paesaggio impresso nella pellicola della mia memoria.
Finite le ultime tre righe della terza pagina, ho chiuso il libro.
Scrivo mentre piove, quando sono sempre stato convinto che è meglio uscire senza ombrello, quando piove. Correre per dove si deve andare... arrivarci. Ma com’è che invece di camminare, scrivo?
E’ che quando piove a Milano tutto è ancora più sfuggente. Si scivola sulle rotaie mentre pedali, si scappa dall’ufficio per prendere il tram. Rimani solo, per ore, chiuso in una macchina perché non volevi prendere il tram e se ti fermi a pensare, ti inzuppi. Allora resto qui, per far si che nulla vada perduto.
C’è chi canta con te e chi conosce le parole ma non le capisce
Me ne sono accorto proprio ieri. A Milano è facile sbagliarsi, credere di condividere mentre stai semplicemente dividendo, credere di comprendere e invece stai solo prendendo.
La Chimica, dopotutto, ci spiega qualcosa: Il sodio - da solo - non ha sapore, un bicchiere di cloro ti uccide. Eppure il sodio ed il cloro insieme sono la base della nostra alimentazione.
Sembra banale, ma il sapore del sale è la proprietà emergente data dall’unione e non dalla semplice somma delle parti. Banale, ma ci si sbaglia facilmente. Mi è capitato di avere così tanta fame o di essere così tanto distratto, da non mettere il sale nell’acqua della pasta e me ne sono accorto all’ultimo boccone. Allo stesso modo, capita di incontrare persone che eseguono e non interpretano. Parli per ore ed ore con qualcuno e solo alla fine ti accorgi che non ti capisce.
Sono contento perché ho molto più da dire adesso che qualche tempo fa.
Poco fa ho posato la chitarra su di una sedia e ho cominciato a scrivere... nulla.
Le prime tre pagine di un libro che ho appena cominciato, mi raccontano di come, con il passare del tempo, le situazioni che hai vissuto si dilatano nel tempo e perdono la chiarezza dei protagonisti, per rimanere dei paesaggi. Magari dei paesaggi ben definiti e di una limpidità fiamminga, ma paesaggi.
E’ stato un attimo, ma per quell’ attimo, queste parole mi hanno rincuorato. Ho creduto realmente che forse, l’importanza di ciò che vivi, non sta nelle singole, specifiche situazioni che accadono, ma nel paesaggio che ti circonda, nel cane che abbaia quando baci una ragazza o negli spazzini che senza che tu te ne accorga passano là dietro, a fianco a te e al tuo più grande amico, nel cuore della notte. Non ci badi e passano.
Ecco, questa città ti scivola tra le mani e temo rimanga un brutto paesaggio impresso nella pellicola della mia memoria.
Finite le ultime tre righe della terza pagina, ho chiuso il libro.
Scrivo mentre piove, quando sono sempre stato convinto che è meglio uscire senza ombrello, quando piove. Correre per dove si deve andare... arrivarci. Ma com’è che invece di camminare, scrivo?
E’ che quando piove a Milano tutto è ancora più sfuggente. Si scivola sulle rotaie mentre pedali, si scappa dall’ufficio per prendere il tram. Rimani solo, per ore, chiuso in una macchina perché non volevi prendere il tram e se ti fermi a pensare, ti inzuppi. Allora resto qui, per far si che nulla vada perduto.
C’è chi canta con te e chi conosce le parole ma non le capisce
Me ne sono accorto proprio ieri. A Milano è facile sbagliarsi, credere di condividere mentre stai semplicemente dividendo, credere di comprendere e invece stai solo prendendo.
La Chimica, dopotutto, ci spiega qualcosa: Il sodio - da solo - non ha sapore, un bicchiere di cloro ti uccide. Eppure il sodio ed il cloro insieme sono la base della nostra alimentazione.
Sembra banale, ma il sapore del sale è la proprietà emergente data dall’unione e non dalla semplice somma delle parti. Banale, ma ci si sbaglia facilmente. Mi è capitato di avere così tanta fame o di essere così tanto distratto, da non mettere il sale nell’acqua della pasta e me ne sono accorto all’ultimo boccone. Allo stesso modo, capita di incontrare persone che eseguono e non interpretano. Parli per ore ed ore con qualcuno e solo alla fine ti accorgi che non ti capisce.
Sono contento perché ho molto più da dire adesso che qualche tempo fa.
Poco fa ho posato la chitarra su di una sedia e ho cominciato a scrivere... nulla.
sabato 28 maggio 2005
In questo momento (sono le 12.41 di sabato 28 maggio 2005) siamo nella camera di Marko Müller (che figa la tastiera con le dieresi üöäß uaüh) il nostro local promoter di Würzburg. Macche' promoter, Marko e' un amico. Anche ieri sera ci ha regalato una serata indimenticabile.
Anche ieri sera ce l'abbiamo fatta... Siamo arrivati alle 11.20 dopo quasi 9 ore di furgone per un percorso che ne richiedeva al massimo 6 e mezzo. Abbiamo capito che c'era qualcosa che non andava quando ci siamo trovati bloccati nel traffico di una via centrale di Zurigo, piu' o meno a 300Km. da Würzburg. Erano le 8 di sera. In ogni caso, andando a tentoni (questa volta Dani diceva che la piantina non ci serviva, che tanto noi la Germania la conosciamo come le nostre tasche) e sfruttando i venti siamo arrivati all'Immerhin... per chi non lo sapesse il locale piu' caldo del mondo. In pratica una cantina senza finestre con un branco di crucchi completamente ubriachi che stizzano come dei pazzi.
Insomma scarichiamo tutto al volo e cominciamo a suonare, senza soundchek/linecheck cazzi e mazzi e come al solito da queste parti facciamo il concerto che piace a noi. Quello dove tutti cantano e non importa cosa. :) Quello dove non ci sentiamo degli stronzi a suonare per l'ennesima volta Goofy e facciamo 3 bis. E facciamo hardcore melodico e a culo tutto il resto!
Cosi' succede che passata mezz'ora dalla fine del concerto qualcuno si avvicina e ci chiede un altro paio di pezzi... il problema e' che non c'e' piu' la batteria (l'altro gruppo aveva gia' smontato tutto) e cosi' improvvisiamo un set-acustico. La gente ora non canta, ma si diverte ci guarda e segue con la testa.
Giusto il tempo di impacchettare i nostri stracci e siamo pronti per "andare a ballare". Tu che leggi e ci conosci sai che non stiamo scherzando. La serata si conclude questa mattina alle 6 dopo un numero non stimato di birre, sigarette fumate avidamente all'interno di ogni locale possibile (Sirchia must die!) e sing-along a piacere sui pezzi dei Die Toten Hosen.
Stasera siamo a Bad Neustadt, se volete fare un salto. Ora andiamo a farci il bagno.
Anche ieri sera ce l'abbiamo fatta... Siamo arrivati alle 11.20 dopo quasi 9 ore di furgone per un percorso che ne richiedeva al massimo 6 e mezzo. Abbiamo capito che c'era qualcosa che non andava quando ci siamo trovati bloccati nel traffico di una via centrale di Zurigo, piu' o meno a 300Km. da Würzburg. Erano le 8 di sera. In ogni caso, andando a tentoni (questa volta Dani diceva che la piantina non ci serviva, che tanto noi la Germania la conosciamo come le nostre tasche) e sfruttando i venti siamo arrivati all'Immerhin... per chi non lo sapesse il locale piu' caldo del mondo. In pratica una cantina senza finestre con un branco di crucchi completamente ubriachi che stizzano come dei pazzi.
Insomma scarichiamo tutto al volo e cominciamo a suonare, senza soundchek/linecheck cazzi e mazzi e come al solito da queste parti facciamo il concerto che piace a noi. Quello dove tutti cantano e non importa cosa. :) Quello dove non ci sentiamo degli stronzi a suonare per l'ennesima volta Goofy e facciamo 3 bis. E facciamo hardcore melodico e a culo tutto il resto!
Cosi' succede che passata mezz'ora dalla fine del concerto qualcuno si avvicina e ci chiede un altro paio di pezzi... il problema e' che non c'e' piu' la batteria (l'altro gruppo aveva gia' smontato tutto) e cosi' improvvisiamo un set-acustico. La gente ora non canta, ma si diverte ci guarda e segue con la testa.
Giusto il tempo di impacchettare i nostri stracci e siamo pronti per "andare a ballare". Tu che leggi e ci conosci sai che non stiamo scherzando. La serata si conclude questa mattina alle 6 dopo un numero non stimato di birre, sigarette fumate avidamente all'interno di ogni locale possibile (Sirchia must die!) e sing-along a piacere sui pezzi dei Die Toten Hosen.
Stasera siamo a Bad Neustadt, se volete fare un salto. Ora andiamo a farci il bagno.
martedì 10 maggio 2005
MILANO E’ PEGGIO "...ancora una volta mi chiedo se la determinazione nostra a voler altro, a voler tutto, a lottare per essere, a suonare per farlo, a parlare per dire, a camminare per muoversi non sia la risultante di quelle forze che singolarmente andrebbero ad annullarsi, ma solo nell'incrocio, nei nodi, in quei momenti scelti per essere unidirezionali nelle intenzioni, si sommano e creano questi urli sinfonici che sono le autoproduzioni... Boh, comunque non ho dubbi sul fatto che per avere delle cose bisogna farsele, costruirsele." (Yuri mesi fa) .
Comunque sia due righe ho voglia di scriverle. Fosse anche solo un facile esercizio per riordinare le idee all’interno del mio cervello o anche un più difficile strumento di autoaffermazione. Si vive anche a Milano ma talvolta pare che questo ammasso di case e idee non riesca a produrre qualcosa che sia realmente vitale. Intendo “vitale” come attributo di qualcosa di vivo che in quanto tale si automantiene, ha capacità di evolversi con continuità, si autodetermina e autorganizza.
Dicendo questo non ho la convinzione del predicatore bensì la lucidità di chi, come molti, cammina per le strade di questa città con la stessa curiosità di quando passeggia tra le vie di Berlino o i quartieri di Parigi. La mia ingenuità mi porta spesso a credere che il contesto in cui avvengono determinati processi ne determini significativamente il risultato, per cui rimango ancorato all’idea neo-romantica che il disamore per i muri, le strade d’asfalto e le rotaie abbia creato le condizioni per una frammentata e discontinua produzione di senso.
Alla luce di queste considerazioni, quantomai semplici ma reali, rimani stupito quando dal ribollire caotico dei progetti, riconosci in alcuni di questi le caratteristiche che, come detto, appartengono non alle macchine finalizzate ma agli organismi vivi.
Appare chiaro in queste scoperte che la “vitalità” di un idea, un progetto, di una struttura, è data dalla qualità delle relazioni, meglio interrelazioni, che il gruppo riesce ad instaurare al suo interno e verso l’esterno. Nulla di nuovo nel panorama del nuovo paradigma sistemico, ma forse interessante constatazione se lo riferiamo all’ambito milanese e alla sua mancanza di continuità culturale.
Esistono, e raramente ce ne accorgiamo, realtà che, al di sopra di quel che un tempo si chiamava mercato, vivono costituendo con la loro presenza l’essenziale testimonianza del presente, mi spiego; I rapporti che si creano all’interno di questi gruppi di persone e le relazioni di questi con l’ambiente in cui agiscono sono tali da rappresentare, nel loro semplice e talvolta non esemplare percorso, tratti significativi del momento storico in cui viviamo. La caratteristica fondamentale di tali gruppi è l’appartenenza in quanto nodo ad una rete più ampia nella quale sono riconoscibili intenzioni comuni nei metodi di organizzazione. La non linearità di alcuni processi, in questo caso sociali e culturali, conduce talvolta a inaspettate uniformità e analogie, in realtà apparentemente lontane tra loro ma che, in virtù di tale comunanza, camminano nella stessa direzione e mantengono lo stesso incedere dei passi.
Con questo sguardo autocentrato mi pare di individuare in alcuni percorsi collettivi i tratti distintivi di quanto detto. Ci sono esperienze di autoproduzioni “vitali”, nel senso dell’indipendenza decisionale sul prodotto e della continuità culturale, in ambito musicale, video, artistico nonché evidentemente sociale. E’ per me chiaro che l’esperienza dei centri sociali costituisce il preambito di questo discorso, in quanto proprio da queste realtà cominciarono, spesso inconsapevolmente, a costituirsi modelli di organizzazione a rete basati non tanto sul fine dell’azione quanto sui modi e i mezzi dell’agire e, in quanto svincolati dalla tensione della massimizzazione del profitto, liberi di provare nuove strade.
Mi sento ora di dire che in ambito musicale ciò è avvenuto nella musica punk e in tutto quell’immaginario, talvolta mal definito ma tangibile, che a questa è direttamente collegato. Mi azzardo pure a dire che la trasversalità di tale percorso ha permesso, non senza enormi contraddizioni, di mantenersi “vitale” e di non perdere quel filo di seta o di ferro che ha tessuto relazioni ed emozioni di molti di noi. Dicendo questo non voglio escludere nessuno e nessun altro ambito culturale, ma proprio di questo ho esperienza e in questo ancora mi stupisco. Proprio senza alcuna intenzione generalizzante, mi riferisco alla storia dei Minnie’s della quale faccio parte e mediante la quale ho avuto la possibilità e la fortuna di conoscere e riconoscere chi come noi, con noi, va avanti a volte correndo, a volte muovendosi in fretta, con lo stessa intenzione di esistenza. Mi stupisco dunque ancora di più quando proprio in questa città dai muri fitti, delle passerelle e del guardare in basso, nascono testimonianze del presente, senza la pretesa di essere definitive e con la ricchezza del appartenere al locale. Il punto è parlare di noi. Il punto è parlare con voi.
Credo che nell’era della comunicazione massificata il problema più grande rimanga ancora il comunicare, cioè il trasferire informazioni , essere in grado di recepirle, interpretarle e rinviarle filtrate dalla soggettività. Questo è quello che fa una band quando sale su un palco, anzi una band che al palco ci arriva dopo chilometri di autostrada e che ne discende appena prima che sorga il sole. Sono le parole, gli sguardi e le mani che battono, il metabolismo di questo organismo, sono le note gli enzimi di tali reazioni. Abbiamo infiniti modi per comunicare ma son convinto che il più efficace rimanga quello della parole detta e del corpo guardato. Succede proprio questo quando è la musica densa di storie che fa parlare, fa muovere, fa assaporare l’estetica della condivisione, non più o non ancora dei saperi, ma semplicemente delle esperienze. Siamo qui e qui siamo. Nasciamo in questo luogo senza identità e dalla consapevolezza di questo ne rivendichiamo l’appartenenza.
Si dice che la capacità di adattamento è uno dei peggiori mali dell’uomo, ed io in parte concordo, ma nel nostro caso non è adattamento altresì l’”urlo sinfonico” che ci mantiene svegli e attenti alla realtà, che ci permette, non più purtroppo di lottare verso qualcosa che sia meglio, ma almeno di tenere gli occhi ben aperti nel momento in cui arriva il pugno.
Milano nel suo complesso, non riesce o non vuole diventare nodo di quella rete di esperienze che trascendono i limiti nazionali e che vanno a comporre il substrato su cui si sviluppano le grandi direttrici della cultura alternativa o meglio ancora evolutiva. Rimane per certi aspetti solo il luogo dell’attraversamento, che arricchisce e forma, ma che senza la componente del produzione di senso condiviso, non sarà mai ganglio del sistema più ampio. Questo per dire che nel suo piccolo e nella sua specificità la storia dei Minnie’s, come quella di band che “suonano per essere” o di persone che “fanno per dire”, rappresenta quelle situazioni in cui ritrovo il desiderio espresso di sentirsi parte e di essere parte di un percorso di definizione della propria esistenza . Il punk è forse questo, almeno per me; è quella inspiegabile energia (tensione) stretta tra noi e voi, meglio ancora tra noi, che ci fa dire “we are late, but we are”, come dichiarare la propria esistenza in un periodo storico che non ci permette più di desiderare il meglio e che rischia di negare lo status primario.
Questo quadro risulta più desolante constatando che la musica dal vivo, intesa come luogo di incontro “tematico”, perde significato annacquandosi nei grandi eventi o ghettizzandosi nei concerti per pochi. Si va perdendo quella scala cromatica di situazioni, appunto condivise, che rendono il sistema (culturale) multiforme ed in grado di evolversi indipendentemente. Per certi aspetti è la dimostrazione del fatto che non ci si riconosce più in quelle situazioni in cui lo rapporto comunicativo tra gli attori, musicanti e musicati, è diretto e non mediato dalla regia del mercato o dalla distanza fisica tra questi. Ma in fondo non è facile stabilire relazioni di causa-effetto, anzi può essere improprio data la natura sistemica dell’argomento, e mi limito quindi a considerare tutto questo come un’ipotesi di lavoro. Mi rimane solo una convinzione: quando vado ai concerti non mi sento mai solo, quando suono voglio non sentirmi solo.
Yuri Venerdi 18 febbraio ‘05
Comunque sia due righe ho voglia di scriverle. Fosse anche solo un facile esercizio per riordinare le idee all’interno del mio cervello o anche un più difficile strumento di autoaffermazione. Si vive anche a Milano ma talvolta pare che questo ammasso di case e idee non riesca a produrre qualcosa che sia realmente vitale. Intendo “vitale” come attributo di qualcosa di vivo che in quanto tale si automantiene, ha capacità di evolversi con continuità, si autodetermina e autorganizza.
Dicendo questo non ho la convinzione del predicatore bensì la lucidità di chi, come molti, cammina per le strade di questa città con la stessa curiosità di quando passeggia tra le vie di Berlino o i quartieri di Parigi. La mia ingenuità mi porta spesso a credere che il contesto in cui avvengono determinati processi ne determini significativamente il risultato, per cui rimango ancorato all’idea neo-romantica che il disamore per i muri, le strade d’asfalto e le rotaie abbia creato le condizioni per una frammentata e discontinua produzione di senso.
Alla luce di queste considerazioni, quantomai semplici ma reali, rimani stupito quando dal ribollire caotico dei progetti, riconosci in alcuni di questi le caratteristiche che, come detto, appartengono non alle macchine finalizzate ma agli organismi vivi.
Appare chiaro in queste scoperte che la “vitalità” di un idea, un progetto, di una struttura, è data dalla qualità delle relazioni, meglio interrelazioni, che il gruppo riesce ad instaurare al suo interno e verso l’esterno. Nulla di nuovo nel panorama del nuovo paradigma sistemico, ma forse interessante constatazione se lo riferiamo all’ambito milanese e alla sua mancanza di continuità culturale.
Esistono, e raramente ce ne accorgiamo, realtà che, al di sopra di quel che un tempo si chiamava mercato, vivono costituendo con la loro presenza l’essenziale testimonianza del presente, mi spiego; I rapporti che si creano all’interno di questi gruppi di persone e le relazioni di questi con l’ambiente in cui agiscono sono tali da rappresentare, nel loro semplice e talvolta non esemplare percorso, tratti significativi del momento storico in cui viviamo. La caratteristica fondamentale di tali gruppi è l’appartenenza in quanto nodo ad una rete più ampia nella quale sono riconoscibili intenzioni comuni nei metodi di organizzazione. La non linearità di alcuni processi, in questo caso sociali e culturali, conduce talvolta a inaspettate uniformità e analogie, in realtà apparentemente lontane tra loro ma che, in virtù di tale comunanza, camminano nella stessa direzione e mantengono lo stesso incedere dei passi.
Con questo sguardo autocentrato mi pare di individuare in alcuni percorsi collettivi i tratti distintivi di quanto detto. Ci sono esperienze di autoproduzioni “vitali”, nel senso dell’indipendenza decisionale sul prodotto e della continuità culturale, in ambito musicale, video, artistico nonché evidentemente sociale. E’ per me chiaro che l’esperienza dei centri sociali costituisce il preambito di questo discorso, in quanto proprio da queste realtà cominciarono, spesso inconsapevolmente, a costituirsi modelli di organizzazione a rete basati non tanto sul fine dell’azione quanto sui modi e i mezzi dell’agire e, in quanto svincolati dalla tensione della massimizzazione del profitto, liberi di provare nuove strade.
Mi sento ora di dire che in ambito musicale ciò è avvenuto nella musica punk e in tutto quell’immaginario, talvolta mal definito ma tangibile, che a questa è direttamente collegato. Mi azzardo pure a dire che la trasversalità di tale percorso ha permesso, non senza enormi contraddizioni, di mantenersi “vitale” e di non perdere quel filo di seta o di ferro che ha tessuto relazioni ed emozioni di molti di noi. Dicendo questo non voglio escludere nessuno e nessun altro ambito culturale, ma proprio di questo ho esperienza e in questo ancora mi stupisco. Proprio senza alcuna intenzione generalizzante, mi riferisco alla storia dei Minnie’s della quale faccio parte e mediante la quale ho avuto la possibilità e la fortuna di conoscere e riconoscere chi come noi, con noi, va avanti a volte correndo, a volte muovendosi in fretta, con lo stessa intenzione di esistenza. Mi stupisco dunque ancora di più quando proprio in questa città dai muri fitti, delle passerelle e del guardare in basso, nascono testimonianze del presente, senza la pretesa di essere definitive e con la ricchezza del appartenere al locale. Il punto è parlare di noi. Il punto è parlare con voi.
Credo che nell’era della comunicazione massificata il problema più grande rimanga ancora il comunicare, cioè il trasferire informazioni , essere in grado di recepirle, interpretarle e rinviarle filtrate dalla soggettività. Questo è quello che fa una band quando sale su un palco, anzi una band che al palco ci arriva dopo chilometri di autostrada e che ne discende appena prima che sorga il sole. Sono le parole, gli sguardi e le mani che battono, il metabolismo di questo organismo, sono le note gli enzimi di tali reazioni. Abbiamo infiniti modi per comunicare ma son convinto che il più efficace rimanga quello della parole detta e del corpo guardato. Succede proprio questo quando è la musica densa di storie che fa parlare, fa muovere, fa assaporare l’estetica della condivisione, non più o non ancora dei saperi, ma semplicemente delle esperienze. Siamo qui e qui siamo. Nasciamo in questo luogo senza identità e dalla consapevolezza di questo ne rivendichiamo l’appartenenza.
Si dice che la capacità di adattamento è uno dei peggiori mali dell’uomo, ed io in parte concordo, ma nel nostro caso non è adattamento altresì l’”urlo sinfonico” che ci mantiene svegli e attenti alla realtà, che ci permette, non più purtroppo di lottare verso qualcosa che sia meglio, ma almeno di tenere gli occhi ben aperti nel momento in cui arriva il pugno.
Milano nel suo complesso, non riesce o non vuole diventare nodo di quella rete di esperienze che trascendono i limiti nazionali e che vanno a comporre il substrato su cui si sviluppano le grandi direttrici della cultura alternativa o meglio ancora evolutiva. Rimane per certi aspetti solo il luogo dell’attraversamento, che arricchisce e forma, ma che senza la componente del produzione di senso condiviso, non sarà mai ganglio del sistema più ampio. Questo per dire che nel suo piccolo e nella sua specificità la storia dei Minnie’s, come quella di band che “suonano per essere” o di persone che “fanno per dire”, rappresenta quelle situazioni in cui ritrovo il desiderio espresso di sentirsi parte e di essere parte di un percorso di definizione della propria esistenza . Il punk è forse questo, almeno per me; è quella inspiegabile energia (tensione) stretta tra noi e voi, meglio ancora tra noi, che ci fa dire “we are late, but we are”, come dichiarare la propria esistenza in un periodo storico che non ci permette più di desiderare il meglio e che rischia di negare lo status primario.
Questo quadro risulta più desolante constatando che la musica dal vivo, intesa come luogo di incontro “tematico”, perde significato annacquandosi nei grandi eventi o ghettizzandosi nei concerti per pochi. Si va perdendo quella scala cromatica di situazioni, appunto condivise, che rendono il sistema (culturale) multiforme ed in grado di evolversi indipendentemente. Per certi aspetti è la dimostrazione del fatto che non ci si riconosce più in quelle situazioni in cui lo rapporto comunicativo tra gli attori, musicanti e musicati, è diretto e non mediato dalla regia del mercato o dalla distanza fisica tra questi. Ma in fondo non è facile stabilire relazioni di causa-effetto, anzi può essere improprio data la natura sistemica dell’argomento, e mi limito quindi a considerare tutto questo come un’ipotesi di lavoro. Mi rimane solo una convinzione: quando vado ai concerti non mi sento mai solo, quando suono voglio non sentirmi solo.
Yuri Venerdi 18 febbraio ‘05
lunedì 9 maggio 2005
finalmente!!
finalmente posso nuovamente postare su questo blog, non che abbia molte cose da raccontarvi, piuttosto ho un sacco di frasi che non so dove posare....
Il ritorno è sempre faticoso...avrei voglia stare ancora seduto davanti alla strada senza chiedermi dove suoneremo questa sera.
ho il peso dei chilometri e dei passi già fatti..
finalmente posso nuovamente postare su questo blog, non che abbia molte cose da raccontarvi, piuttosto ho un sacco di frasi che non so dove posare....
Il ritorno è sempre faticoso...avrei voglia stare ancora seduto davanti alla strada senza chiedermi dove suoneremo questa sera.
ho il peso dei chilometri e dei passi già fatti..
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