[22.07.43] Luca scrive:bisogna saper perdere non sempre si può vincere
[22.07.54] Luca scrive:ma se si sempreperdere, allora quando vincere?
mercoledì 12 dicembre 2007
Alcuni post hanno traslocato da questo blog a quello sul nostro profilo MySpace. Se avete voglia di leggerli potete farlo andando qui.
venerdì 7 luglio 2006
(IL TOUR DEI MINNIE’S VISTO DALL’OCCHIO DELLE TELECAMERE)
di Marinna - la regista del documentario
Concentrarsi e distrarsi Stiamo inseguendo i Minnie’s e tutto il mondo che gli ruota attorno da giorni. Siamo parte di questo viaggio, ma il nostro interagire è filtrato da una videocamera e dal desiderio di raccontare le storie che incrociamo lungo la strada. La Sabi ed io dovremmo renderci invisibili, ma a volte è impossibile non ridere, il loro desiderio di star bene e di fare bene è contagioso. Mi domando come sarà possibile togliere le nostre risate e i nostri commenti dal sonoro del film...
In Viaggio Cameracar che scrutano attraverso il paesaggio: in Svizzera abbiamo beccato un dirigibile, nell’Est della Germania edifici vuoti; all’Ovest acciaierie e camini fumanti. Gli spostamenti sono lunghissimi, quasi interminabili. A volte durano anche tutto il giorno.
Routine Anche la vita on the road ha una sua routine: a qualche chilometro dall’arrivo scatta la preparazione: telefonare al promoter locale per capire l’indirizzo giusto; perdersi almeno un paio di volte; e poi birre per tutti, anche per me e Sabina, visto che di solito arriviamo all’orario dell’aperitivo, mentre qualcuno di loro che ci ha anticipato, ne ha già bevute 4 dall’inizio della giornata. E infatti scatta la gara di rutto, rito propiziatorio prima della discesa a terra; c’è chi riesce a fare strofe di canzoni, “PROVA AUDIO” dicono, per noi che abbiamo un microfono attaccato alla videocamere e le cuffie per controllare il suono.. il rutto in cuffia è davvero oltre-umano. Gore, direi..
Scaricare il furgone Dopo la seconda data abbiamo trovato lo schema: io sposto tutto il materiale del cinema sui sedili davanti, i Minnie’s scaricano gli aggeggi musicali. Mentre la Sabi li segue come un’ombra, io mi guardo intorno. Cerchiamo sempre di rubare gli sfondi mentre corriamo dietro ai Minnie’s. Non c’è tempo per preparare inquadrature o piazzare delle luci. Tutto accade in tempo reale. I locali sono sempre buissimi, 12 db di guadagno quasi fissi (una funzione che aumenta la luminosità della camera ma che sgrana tantissimo l’immagine). Come dice la Sabi abbiamo sempre un petardo nel culo. Peccato che non faccia luce...
Non c’è tempo per pensare. L’ufficio per le riflessioni è il sacco a pelo. La convocazione scatta appena chiudiamo la lampo. Il problema è che le riflessioni, dopo mille birre, possono essere un pò impietose. Una notte, al Tommy Weissbecker House di Berlino, sono andata in fissa pensando che forse tutto ciò che stavamo filmando potesse risultare monotono: per noi ogni squatt, ogni locale, ha una storia particolare. Ogni graffito, ogni poster, ogni oggetto riciclato in una nuova funzione sono segni da cui intuire il vissuto di un luogo. E in cui riconoscere il proprio vissuto. Così provo a capire come restituire ai posti che ci ospitano la specificità che ai nostri occhi li rende tutti diversamente speciali. Dobbiamo fare domande per fare raccontare alle persone che incontriamo il nostro viaggio attraverso la Germania. Ieri eravamo al confine con la Polonia, con Philipp, il tour manager dei Minnie’s, che studia l’Africa all’università e dice che l’est diventerà come il Canada. Oggi siamo al confine con il Lussemburgo, e Carmelo, il co-produttore del disco dei Minnies, siculo nato nella Brianza tedesca (Saar) ci ha fatto fare un giro nell’acciaieria dove lavora. Accumulo tutto ciò che posso. Ora, non so ancora bene cosa rimarrà di questo viaggio, ma meglio non farsi troppe domande. Le domande mi distraggono. Devo riuscire a concentrarmi.
Il furgone va spedito, i ragazzi fanno l’ennesimo scatch divertente. Controllo che la Sabi abbia la camera accesa, questa era bella da riprendere. La luce rossa dice che stava registrando, sempre sul pezzo la Sabi.. Peccato che di nuovo mi è scappata la risata.. Che strano ridere e incazzarsi con sé stessi perché si ride. Va beh, per ora mi godo lo show dei miei compagni di viaggio. Ma già so che prima della fine farò di nuovo un giro intero attorno a tutti gli umori possibili.
di Marinna - la regista del documentario
Concentrarsi e distrarsi Stiamo inseguendo i Minnie’s e tutto il mondo che gli ruota attorno da giorni. Siamo parte di questo viaggio, ma il nostro interagire è filtrato da una videocamera e dal desiderio di raccontare le storie che incrociamo lungo la strada. La Sabi ed io dovremmo renderci invisibili, ma a volte è impossibile non ridere, il loro desiderio di star bene e di fare bene è contagioso. Mi domando come sarà possibile togliere le nostre risate e i nostri commenti dal sonoro del film...
In Viaggio Cameracar che scrutano attraverso il paesaggio: in Svizzera abbiamo beccato un dirigibile, nell’Est della Germania edifici vuoti; all’Ovest acciaierie e camini fumanti. Gli spostamenti sono lunghissimi, quasi interminabili. A volte durano anche tutto il giorno.
Routine Anche la vita on the road ha una sua routine: a qualche chilometro dall’arrivo scatta la preparazione: telefonare al promoter locale per capire l’indirizzo giusto; perdersi almeno un paio di volte; e poi birre per tutti, anche per me e Sabina, visto che di solito arriviamo all’orario dell’aperitivo, mentre qualcuno di loro che ci ha anticipato, ne ha già bevute 4 dall’inizio della giornata. E infatti scatta la gara di rutto, rito propiziatorio prima della discesa a terra; c’è chi riesce a fare strofe di canzoni, “PROVA AUDIO” dicono, per noi che abbiamo un microfono attaccato alla videocamere e le cuffie per controllare il suono.. il rutto in cuffia è davvero oltre-umano. Gore, direi..
Scaricare il furgone Dopo la seconda data abbiamo trovato lo schema: io sposto tutto il materiale del cinema sui sedili davanti, i Minnie’s scaricano gli aggeggi musicali. Mentre la Sabi li segue come un’ombra, io mi guardo intorno. Cerchiamo sempre di rubare gli sfondi mentre corriamo dietro ai Minnie’s. Non c’è tempo per preparare inquadrature o piazzare delle luci. Tutto accade in tempo reale. I locali sono sempre buissimi, 12 db di guadagno quasi fissi (una funzione che aumenta la luminosità della camera ma che sgrana tantissimo l’immagine). Come dice la Sabi abbiamo sempre un petardo nel culo. Peccato che non faccia luce...
Non c’è tempo per pensare. L’ufficio per le riflessioni è il sacco a pelo. La convocazione scatta appena chiudiamo la lampo. Il problema è che le riflessioni, dopo mille birre, possono essere un pò impietose. Una notte, al Tommy Weissbecker House di Berlino, sono andata in fissa pensando che forse tutto ciò che stavamo filmando potesse risultare monotono: per noi ogni squatt, ogni locale, ha una storia particolare. Ogni graffito, ogni poster, ogni oggetto riciclato in una nuova funzione sono segni da cui intuire il vissuto di un luogo. E in cui riconoscere il proprio vissuto. Così provo a capire come restituire ai posti che ci ospitano la specificità che ai nostri occhi li rende tutti diversamente speciali. Dobbiamo fare domande per fare raccontare alle persone che incontriamo il nostro viaggio attraverso la Germania. Ieri eravamo al confine con la Polonia, con Philipp, il tour manager dei Minnie’s, che studia l’Africa all’università e dice che l’est diventerà come il Canada. Oggi siamo al confine con il Lussemburgo, e Carmelo, il co-produttore del disco dei Minnies, siculo nato nella Brianza tedesca (Saar) ci ha fatto fare un giro nell’acciaieria dove lavora. Accumulo tutto ciò che posso. Ora, non so ancora bene cosa rimarrà di questo viaggio, ma meglio non farsi troppe domande. Le domande mi distraggono. Devo riuscire a concentrarmi.
Il furgone va spedito, i ragazzi fanno l’ennesimo scatch divertente. Controllo che la Sabi abbia la camera accesa, questa era bella da riprendere. La luce rossa dice che stava registrando, sempre sul pezzo la Sabi.. Peccato che di nuovo mi è scappata la risata.. Che strano ridere e incazzarsi con sé stessi perché si ride. Va beh, per ora mi godo lo show dei miei compagni di viaggio. Ma già so che prima della fine farò di nuovo un giro intero attorno a tutti gli umori possibili.
giovedì 18 agosto 2005
E’ proprio vero.
L’accomodamento, o assuefazione è una caratteristica degli esseri viventi che ha permesso loro di evolversi sino al genere umano o gli ha causato estinzioni catastrofiche.
Non l’ho detto io, non ricordo neanche chi lo scrisse, forse l’ho sognato.
Fatto sta che, se da un lato questa caratteristica permette a Dani di dormire "apparentemente" comodo su una hamaca in una spiaggia caraibica, dall’altro consente di "apparire" a me stesso, felice nella mia condizione di permanenza in questa città. Drammatica o entusiasmante che sia questa prospettiva è interessante notare come, tra le due condizioni diametralmente opposte, anche in senso geografico, ne esiste una terza che semplicemente supera o integra le due.
Luca, infatti, coerente con la sua natura di essere vivente e di ragazzo abruzzese, passa queste ore del mio amaro dilemma, tra nonne ideali, arrosticini, grigliate alluvionate, testi da scrivere e sbronze da cui riprendersi… come l’anno scorso, quello prima e quello ancora prima. In altre parole, è forse l’abitudine, ed il sentirsi in pace con questa, la condizione più opportuna per evitare le fluttuazioni e gli sbandamenti della strada che percorriamo e quindi garantire la longevità dei progetti e l'efficacia delle proprie azioni?
A questo proposito, credo sia attinente all’argomento un’altra questione per la quale mi contorcevo l’altra sera: quale cazzo è la differenza tra "passione" e "cuore"?
Sembra una problematica da 'tardo adolescenziale bloggettaro sfigato al caldo di agosto sul cemento di milano’, ed in effetti il mal di pancia era forse dovuto a questo, ma dopotutto è di questo che parliamo mentre strimpelliamo i nostri strumenti. Non riporto le definizioni che ho trovato su i vari dizionari consultati, data l’innafidabilità delle loro affermazioni, e spiego brevemente a che penso mentre quello dondola e l’altro si gongola.
Quella mattina sono stato in piscina. Non c’era il sole e neanche tanta gente per cui, ho appoggiato la borsa e mi sono tuffato. Vabbeh…eravamo in due con la cuffia e gli occhialini a fare avanti indietro.
Ho iniziato a nuotare felice di essere li e con un vigore inaspettato, andavo velocissimo e mi bulleggiavo con me stesso di superare me stesso e anche l’altro. L’altro andava, andava e respirava, metodico e continuo, avanti e indietro. Sentivo le braccia e le gambe scivolare tra le particelle d’acqua ed i pensieri aumentavano ad ogni vasca.
Dopo qualche salita e discesa ho capito che era sufficiente per la mia compostezza morale e che, se non fossi uscito, sarei affogato dalla fatica. Ma appena mi son sdraiato sull’asciugamano, mi è balenata improvvisamente la fatidica domanda: perché suonate?
Che palle! Avevo appena riacquisito l’equilibrio tra la mente ed il corpo, quando due parole assordanti sbilanciano il tutto. Non avevo voglia di rispondermi per l’ennesima volta, avevo il fiatone e la testa gonfia d’acqua e mi son messo sul bordo della piscina ad osservare l’altro che andava. Era un signore magrolino di mezza età, la cuffia di silicone nera e gli occhialini gialli affumicati. Il costume nero divideva in due quella persona bianca dondolante. Nel silenzio d’agosto si sentiva il suo respiro profondo, ritmico. Faceva poche bracciate mentre il corpo scivolava, girava la testa appena per far entrare un turbine d’aria tra il suo labbro ed il filo dell’acqua, ad ogni fine vasca cambiava senso quasi senza che me ne accorgessi.
Mi son buttato indietro e ho dormito un po’….
Era questa la differenza tra ‘passione’ e ‘cuore’: io nuotavo con passione, impulsivamente e con ogni cellula del corpo contemporaneamente, la testa altrove vagava piena e pesante; lui nuotava con il cuore, con ragionevole misura dei movimenti in funzione dello spostamento, con la mente immersa nell’acqua e non sprofondata in essa.
Appena ripresi i sensi, ho raccolto le mie cose e sono andato mentre quello ancora nuotava. Cazzo! Come son banali questi pensieri, eppure mi è sembrato di aver avuto una rivelazione.
Non so’, ma ho quasi l’impressione che l’abitudine sia sinonimo di esercizio e che l’esercizio i quanto l’allenamento sia la condizione per non farsi cogliere impreparati.
Sarà per questo che le canzoni che scrive sanno di lui, di me e di quell’altro.
L’accomodamento, o assuefazione è una caratteristica degli esseri viventi che ha permesso loro di evolversi sino al genere umano o gli ha causato estinzioni catastrofiche.
Non l’ho detto io, non ricordo neanche chi lo scrisse, forse l’ho sognato.
Fatto sta che, se da un lato questa caratteristica permette a Dani di dormire "apparentemente" comodo su una hamaca in una spiaggia caraibica, dall’altro consente di "apparire" a me stesso, felice nella mia condizione di permanenza in questa città. Drammatica o entusiasmante che sia questa prospettiva è interessante notare come, tra le due condizioni diametralmente opposte, anche in senso geografico, ne esiste una terza che semplicemente supera o integra le due.
Luca, infatti, coerente con la sua natura di essere vivente e di ragazzo abruzzese, passa queste ore del mio amaro dilemma, tra nonne ideali, arrosticini, grigliate alluvionate, testi da scrivere e sbronze da cui riprendersi… come l’anno scorso, quello prima e quello ancora prima. In altre parole, è forse l’abitudine, ed il sentirsi in pace con questa, la condizione più opportuna per evitare le fluttuazioni e gli sbandamenti della strada che percorriamo e quindi garantire la longevità dei progetti e l'efficacia delle proprie azioni?
A questo proposito, credo sia attinente all’argomento un’altra questione per la quale mi contorcevo l’altra sera: quale cazzo è la differenza tra "passione" e "cuore"?
Sembra una problematica da 'tardo adolescenziale bloggettaro sfigato al caldo di agosto sul cemento di milano’, ed in effetti il mal di pancia era forse dovuto a questo, ma dopotutto è di questo che parliamo mentre strimpelliamo i nostri strumenti. Non riporto le definizioni che ho trovato su i vari dizionari consultati, data l’innafidabilità delle loro affermazioni, e spiego brevemente a che penso mentre quello dondola e l’altro si gongola.
Quella mattina sono stato in piscina. Non c’era il sole e neanche tanta gente per cui, ho appoggiato la borsa e mi sono tuffato. Vabbeh…eravamo in due con la cuffia e gli occhialini a fare avanti indietro.
Ho iniziato a nuotare felice di essere li e con un vigore inaspettato, andavo velocissimo e mi bulleggiavo con me stesso di superare me stesso e anche l’altro. L’altro andava, andava e respirava, metodico e continuo, avanti e indietro. Sentivo le braccia e le gambe scivolare tra le particelle d’acqua ed i pensieri aumentavano ad ogni vasca.
Dopo qualche salita e discesa ho capito che era sufficiente per la mia compostezza morale e che, se non fossi uscito, sarei affogato dalla fatica. Ma appena mi son sdraiato sull’asciugamano, mi è balenata improvvisamente la fatidica domanda: perché suonate?
Che palle! Avevo appena riacquisito l’equilibrio tra la mente ed il corpo, quando due parole assordanti sbilanciano il tutto. Non avevo voglia di rispondermi per l’ennesima volta, avevo il fiatone e la testa gonfia d’acqua e mi son messo sul bordo della piscina ad osservare l’altro che andava. Era un signore magrolino di mezza età, la cuffia di silicone nera e gli occhialini gialli affumicati. Il costume nero divideva in due quella persona bianca dondolante. Nel silenzio d’agosto si sentiva il suo respiro profondo, ritmico. Faceva poche bracciate mentre il corpo scivolava, girava la testa appena per far entrare un turbine d’aria tra il suo labbro ed il filo dell’acqua, ad ogni fine vasca cambiava senso quasi senza che me ne accorgessi.
Mi son buttato indietro e ho dormito un po’….
Era questa la differenza tra ‘passione’ e ‘cuore’: io nuotavo con passione, impulsivamente e con ogni cellula del corpo contemporaneamente, la testa altrove vagava piena e pesante; lui nuotava con il cuore, con ragionevole misura dei movimenti in funzione dello spostamento, con la mente immersa nell’acqua e non sprofondata in essa.
Appena ripresi i sensi, ho raccolto le mie cose e sono andato mentre quello ancora nuotava. Cazzo! Come son banali questi pensieri, eppure mi è sembrato di aver avuto una rivelazione.
Non so’, ma ho quasi l’impressione che l’abitudine sia sinonimo di esercizio e che l’esercizio i quanto l’allenamento sia la condizione per non farsi cogliere impreparati.
Sarà per questo che le canzoni che scrive sanno di lui, di me e di quell’altro.
giovedì 11 agosto 2005
Milano è più mia.
Sembra quasi che i giorni si siano rattrappiti o che basti meno tempo alle poche persone che son rimaste. Si sente il passeggiare delle persone qui sotto, il cigolio di un freno e l’orologio che gira, rotola. Io mi sveglio tardi, schiaccio play e guardo fuori cercando un po’ d’estate. Il calzolaio qui sotto è cileno e dentro al suo laboratorio c’è sempre qualcuno che chiacchera e lo aiuta, non smette mai di lavorare, sorride poco ma quando ti saluta ti senti in parte compreso nel suo mondo diverso dal tuo.La sera se torno verso le dieci, la luce sopra la saracinesca è ancora accesa e loro parlano animosamente, li è il loro paese. A fianco stanno allestendo un altro telephone center, il quarto nel raggio di cento metri, questo però è giallo e i muratori sono peruviani. Uno appoggiato alla macchina parcheggiata guarda mentre un altro piccolino, va avanti e indietro con atrezzi e robe di tutti i tipi, quello guarda enorme nella sua proprietà, serio e preoccupato nella sua proprietà. Subito dopo vendono aggeggi per il computer e accessori di varia tecnologia. Lui credo sia cileno e ha l’aria colta attraverso gli occhiali, di quelli che devi indossare se fai questo mestiere. Chissa perché è ancora aperto mentre appoggiato alla porta aspetta che la gente scorra. Attaccato c’è una vetrina di un metro e mezzo ed una porta aperta, non vorresti mai entrare se non fosse che il caffè ad agosto lo fanno solo li. Sembra tutto giallino e dietro al bancone si alternano due personaggi sbiaditi: lui magrolino con gli occhiali tartarugati, con qurant’anni portati nelle tasche dei pantaloni, per sbaglio, a caso dimenticati e lavati più volte. Non ho mai sentito la sua voce ma non sembra taciturno, forse non ha niente da dirmi. Lei arriva il pomeriggio, larga ed una faccia tanto brutta che potrebbe essere simpaticissima. Non credo che lo sia, abbiamo parlato del tempo, del caldo e delle persone che vanno. Manca qualcosa a questo bar per essere un bumbit. Se passo davanti verso le cinque giocano a carte gli anziani, mentre qualcuno in controluce sullo sfondo, verso il retro, gioca con quelle macchinette che misurano la tua fortuna. Alle undici e mezza, dal terrazzo sento lo scampanellio della sua bicicletta, la immagino che sorride e forse è felice. Lo spazio accanto è occupato da un meccanico. La sua officina mi ricorda , non so come, quelle stanze piene di rottami neri di grasso dove aggiustano gli autobus che attraversano l’India. E’ uno strano ordine il loro ed il suo, dove ogni pezzo ha senso solo inserito nella storia che lo lega a quel luogo; come ci è arrivato e in che modo uscirà. Sta li, a caso ma con un ordine ben preciso. In questi giorni lavora per starda, sul marciapiede e c’è sempre qualcuno, ben vestito e di una certa età, che a fianco osserva e commenta aspettando la sera. Osvaldo ha aggiustato più volte il nostro furgone, senza mai farlo completamente…manca sempre qualcosa a terminare l’opera. Sorride strano ma sorride, e a me sta simpatico.
Ah, dimenticavo la sartoria, prima del bar e anche prima dei computer. Dentro ci lavorano due signore trentenni ed una ragazza araba che indossa sempre il velo. Loro sono un po’ scontrose e quando le incrocio nel cortile di casa, mentre aspirano tese il fumo della sigarette, salutano con gli occhi senza faticare troppo. La ragazza con il velo ha un’eleganza particolare, non mi saluta ma sorride senza muovere le labbra. Loro hanno chiuso e probabilmente lavorano ancora nella casa dei nonni in un paesino bruttissimo, vicinissimo ad un mare bellissimo. Ecco, ancora un altro negozietto delle comunicazioni intercontinentali, sempre pieno di gente, ed infine il bar-tabacchi che fa angolo. Di lui ne parliamo un’altra volta dato che i visi e gli sguardi di questo posto non finirebbero mai di riempire pagine con storie di malfattori e di genuina fratellanza. Non ne so ancora nulla. Beh, ha chiuso una settimana fa e li c’è del vuoto.
Me ne sto a scrivere nella penombra, il giorno è gia passato, più semplicemente di quanto immaginassi. Si infilano come pezzi di pietra bucati e attraversati dalla linea continua dei miei pensieri. A volte tristi e volte di serena tranquillità. Se non fosse per questa collana ingombrante ed il fresco di questi giorni, non sembra neanche agosto, ma una città che non conosco.
Sembra quasi che i giorni si siano rattrappiti o che basti meno tempo alle poche persone che son rimaste. Si sente il passeggiare delle persone qui sotto, il cigolio di un freno e l’orologio che gira, rotola. Io mi sveglio tardi, schiaccio play e guardo fuori cercando un po’ d’estate. Il calzolaio qui sotto è cileno e dentro al suo laboratorio c’è sempre qualcuno che chiacchera e lo aiuta, non smette mai di lavorare, sorride poco ma quando ti saluta ti senti in parte compreso nel suo mondo diverso dal tuo.La sera se torno verso le dieci, la luce sopra la saracinesca è ancora accesa e loro parlano animosamente, li è il loro paese. A fianco stanno allestendo un altro telephone center, il quarto nel raggio di cento metri, questo però è giallo e i muratori sono peruviani. Uno appoggiato alla macchina parcheggiata guarda mentre un altro piccolino, va avanti e indietro con atrezzi e robe di tutti i tipi, quello guarda enorme nella sua proprietà, serio e preoccupato nella sua proprietà. Subito dopo vendono aggeggi per il computer e accessori di varia tecnologia. Lui credo sia cileno e ha l’aria colta attraverso gli occhiali, di quelli che devi indossare se fai questo mestiere. Chissa perché è ancora aperto mentre appoggiato alla porta aspetta che la gente scorra. Attaccato c’è una vetrina di un metro e mezzo ed una porta aperta, non vorresti mai entrare se non fosse che il caffè ad agosto lo fanno solo li. Sembra tutto giallino e dietro al bancone si alternano due personaggi sbiaditi: lui magrolino con gli occhiali tartarugati, con qurant’anni portati nelle tasche dei pantaloni, per sbaglio, a caso dimenticati e lavati più volte. Non ho mai sentito la sua voce ma non sembra taciturno, forse non ha niente da dirmi. Lei arriva il pomeriggio, larga ed una faccia tanto brutta che potrebbe essere simpaticissima. Non credo che lo sia, abbiamo parlato del tempo, del caldo e delle persone che vanno. Manca qualcosa a questo bar per essere un bumbit. Se passo davanti verso le cinque giocano a carte gli anziani, mentre qualcuno in controluce sullo sfondo, verso il retro, gioca con quelle macchinette che misurano la tua fortuna. Alle undici e mezza, dal terrazzo sento lo scampanellio della sua bicicletta, la immagino che sorride e forse è felice. Lo spazio accanto è occupato da un meccanico. La sua officina mi ricorda , non so come, quelle stanze piene di rottami neri di grasso dove aggiustano gli autobus che attraversano l’India. E’ uno strano ordine il loro ed il suo, dove ogni pezzo ha senso solo inserito nella storia che lo lega a quel luogo; come ci è arrivato e in che modo uscirà. Sta li, a caso ma con un ordine ben preciso. In questi giorni lavora per starda, sul marciapiede e c’è sempre qualcuno, ben vestito e di una certa età, che a fianco osserva e commenta aspettando la sera. Osvaldo ha aggiustato più volte il nostro furgone, senza mai farlo completamente…manca sempre qualcosa a terminare l’opera. Sorride strano ma sorride, e a me sta simpatico.
Ah, dimenticavo la sartoria, prima del bar e anche prima dei computer. Dentro ci lavorano due signore trentenni ed una ragazza araba che indossa sempre il velo. Loro sono un po’ scontrose e quando le incrocio nel cortile di casa, mentre aspirano tese il fumo della sigarette, salutano con gli occhi senza faticare troppo. La ragazza con il velo ha un’eleganza particolare, non mi saluta ma sorride senza muovere le labbra. Loro hanno chiuso e probabilmente lavorano ancora nella casa dei nonni in un paesino bruttissimo, vicinissimo ad un mare bellissimo. Ecco, ancora un altro negozietto delle comunicazioni intercontinentali, sempre pieno di gente, ed infine il bar-tabacchi che fa angolo. Di lui ne parliamo un’altra volta dato che i visi e gli sguardi di questo posto non finirebbero mai di riempire pagine con storie di malfattori e di genuina fratellanza. Non ne so ancora nulla. Beh, ha chiuso una settimana fa e li c’è del vuoto.
Me ne sto a scrivere nella penombra, il giorno è gia passato, più semplicemente di quanto immaginassi. Si infilano come pezzi di pietra bucati e attraversati dalla linea continua dei miei pensieri. A volte tristi e volte di serena tranquillità. Se non fosse per questa collana ingombrante ed il fresco di questi giorni, non sembra neanche agosto, ma una città che non conosco.
sabato 9 luglio 2005
“Ho incontrato persone che non avrei mai pensato di rivedere.”
Iniziava cosi` il libro che mi e` capitato tra le mani mentre, passeggiando tra gli scaffali di una libreria, aspettavo che arrivasse quello giusto. Non e` un bel inizio, potrebbe essere un qualsiasi romanzo da leggere per sbaglio e da terminare di corsa per scendere alla fermata giusta. Parlando della mia storia avrei scritto diversamente: “ ci sono incontri che non puoi sapere, ci sono incontri di cui ti chiedi il come, ma mai il perche`”.
Poi son tornato su quella pagina con la necessita` di capire dove andavano quelle parole, e se pur con una goffa camminata verso il senso, erano in questo ordine preciso:”la persona di cui vi parlo non e` una, ma mille passanti sulle vie della mia memoria, sono io”.
Parlava forse delle mutevoli forme dello stare, immobile o mobile, ora qui, diversamente da ieri e chissa` quando tornero` cosi`. O meglio, quei dejavu di te stesso che rivivi talvolta sorseggiando atmosfere condivise con altri, come gli incontri che fai con gli sguardi, divisi esattamente a meta`.
Ti scopri come non avresti mai pensato di essere, o ti ricordi come eri e non sei piu, ti immagini di essere e non sei, per un attimo senti che sei quello che eri, per un attimo non sei piu` quello che sei, sei sempre una copia della tua imagine, vorresti ma non sei, sei ma vorresti…ti incontri per strada e fai finta di non riconoscerti, ti incontri per strada e fingi di essere il tuo migliore amico…
Tornando alla mia storia avrei continuato cosi:”se mi chiedessi di chi sto parlando ti risponderei pensando a tutte quelle persone che inaspettatamente sono entrate e sono uscite lasciando la porta aperta, o meglio ancora che son entrate perche` la porta era aperta e non son mai piu` uscite” .
Iniziava cosi` il libro che mi e` capitato tra le mani mentre, passeggiando tra gli scaffali di una libreria, aspettavo che arrivasse quello giusto. Non e` un bel inizio, potrebbe essere un qualsiasi romanzo da leggere per sbaglio e da terminare di corsa per scendere alla fermata giusta. Parlando della mia storia avrei scritto diversamente: “ ci sono incontri che non puoi sapere, ci sono incontri di cui ti chiedi il come, ma mai il perche`”.
Poi son tornato su quella pagina con la necessita` di capire dove andavano quelle parole, e se pur con una goffa camminata verso il senso, erano in questo ordine preciso:”la persona di cui vi parlo non e` una, ma mille passanti sulle vie della mia memoria, sono io”.
Parlava forse delle mutevoli forme dello stare, immobile o mobile, ora qui, diversamente da ieri e chissa` quando tornero` cosi`. O meglio, quei dejavu di te stesso che rivivi talvolta sorseggiando atmosfere condivise con altri, come gli incontri che fai con gli sguardi, divisi esattamente a meta`.
Ti scopri come non avresti mai pensato di essere, o ti ricordi come eri e non sei piu, ti immagini di essere e non sei, per un attimo senti che sei quello che eri, per un attimo non sei piu` quello che sei, sei sempre una copia della tua imagine, vorresti ma non sei, sei ma vorresti…ti incontri per strada e fai finta di non riconoscerti, ti incontri per strada e fingi di essere il tuo migliore amico…
Tornando alla mia storia avrei continuato cosi:”se mi chiedessi di chi sto parlando ti risponderei pensando a tutte quelle persone che inaspettatamente sono entrate e sono uscite lasciando la porta aperta, o meglio ancora che son entrate perche` la porta era aperta e non son mai piu` uscite” .
mercoledì 22 giugno 2005
Ma perché suonate?
Cazzo, è come quando si gioca a calcetto, le palle molto lente sono di certo un goal.
…camminavamo lungo una di quelle strade milanesi in cui di certo non incontri nessuno per almeno dieci minuti. Non hai nemmeno l’occasione di incrociare uno sguardo che supporti il tuo, pesante di pensieri. Ho rallentato il passo in quarti, il battito del cuore in ottavi mentre lo scorrere delle immagini scandiva i sedicesimi. Mi son fermato un attimo. Son ripartito con il piede destro e le parole che uscivano dalla bocca. Stop and go.
“La musica che facciamo è secondaria, è funzionale all’obiettivo che implicitamente ci siam dati”.
Escono così una fila di parole che rimangono sospese per un secondo, li appese ad un filo teso da me, per poi disperdersi in un filo di vento.
“è un mezzo per creare relazioni che intessono le storie; suoniamo per te che mi chiedi perché suoni”.
Non so bene che volesse dire l’ultima frase ma mi accorgo ora come possieda in sé la ricorsività delle nostre azioni, meglio ancora, del senso di queste.
Mi piace pensare al concerto come ad una comunicazione che sfiora tutti i sensi e che corre circolarmente tra te e me. Incidiamo i dischi perché qualcuno ci dica che lo ascolta la mattina mentre va a scuola o perché qualcun’ altro ne utilizzi le parole per spiegare se stesso.
Camminavamo, sempre più rapidi , ci si trainava a vicenda mentre pensavo.
A Milano capita spesso. Non siamo più abituati a passeggiare, a far respirare le parole, a guardare in alto se c’è il sole, altresì verso il basso per superare ostacoli. Ci si sposta da un punto all’altro tralasciando il percorso, non viene scelto ma è scelto.
È come dire che non importa come ci arrivi ma quando ci arrivi.
Il fiato e l’accelerazione cardiaca mi costringono a queste considerazioni, tralasciando la domanda iniziale, evitando di rispondere.
Mi son fermato guardandomi negli occhi.
Forse son stato esaustivo.
y
Cazzo, è come quando si gioca a calcetto, le palle molto lente sono di certo un goal.
…camminavamo lungo una di quelle strade milanesi in cui di certo non incontri nessuno per almeno dieci minuti. Non hai nemmeno l’occasione di incrociare uno sguardo che supporti il tuo, pesante di pensieri. Ho rallentato il passo in quarti, il battito del cuore in ottavi mentre lo scorrere delle immagini scandiva i sedicesimi. Mi son fermato un attimo. Son ripartito con il piede destro e le parole che uscivano dalla bocca. Stop and go.
“La musica che facciamo è secondaria, è funzionale all’obiettivo che implicitamente ci siam dati”.
Escono così una fila di parole che rimangono sospese per un secondo, li appese ad un filo teso da me, per poi disperdersi in un filo di vento.
“è un mezzo per creare relazioni che intessono le storie; suoniamo per te che mi chiedi perché suoni”.
Non so bene che volesse dire l’ultima frase ma mi accorgo ora come possieda in sé la ricorsività delle nostre azioni, meglio ancora, del senso di queste.
Mi piace pensare al concerto come ad una comunicazione che sfiora tutti i sensi e che corre circolarmente tra te e me. Incidiamo i dischi perché qualcuno ci dica che lo ascolta la mattina mentre va a scuola o perché qualcun’ altro ne utilizzi le parole per spiegare se stesso.
Camminavamo, sempre più rapidi , ci si trainava a vicenda mentre pensavo.
A Milano capita spesso. Non siamo più abituati a passeggiare, a far respirare le parole, a guardare in alto se c’è il sole, altresì verso il basso per superare ostacoli. Ci si sposta da un punto all’altro tralasciando il percorso, non viene scelto ma è scelto.
È come dire che non importa come ci arrivi ma quando ci arrivi.
Il fiato e l’accelerazione cardiaca mi costringono a queste considerazioni, tralasciando la domanda iniziale, evitando di rispondere.
Mi son fermato guardandomi negli occhi.
Forse son stato esaustivo.
y
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